Mini-naja o supercazzola prematurata

con doppio scappellamento a destra? – Mini-naja o supercazzola prematurata
È dell’11 dicembre 2022 la notizia dell’iniziativa dell’attuale Presidente del Senato della Repubblica
Ignazio La Russa (gerarchicamente la seconda carica dello Stato), che lancia la proposta di una mini-naja volontaria. Ovviamente essa passerà al vaglio del Parlamento. Un: “Disegno di legge per addestramenti di 40 giorni, dove sono previsti incentivi per i giovani che vi aderiranno”.
Ignazio Benito Maria La Russa è di origine siciliana.
Nato a Paternò (Comune italiano di circa 45.000 abitanti oggi facente parte della Città Metropolitana di Catania) il 18 luglio 1947. La Russa è stato parlamentare dal 1992, prima alla Camera dei deputati e dal 2018 al Senato della Repubblica.
Comprensibile che a questo figlio del meridione sfugga la radice della la parola naia che origina dal dialetto veneto, friulano (pare che la parola fosse stata inventata dagli alpini della Grande Guerra) e sta per genia, semanticamente un’accezione negativa di gerarchia.
Con la sospensione – non abolizione – della leva obbligatoria, nel 2005, l’Italia ha scelto di avere delle FFAA professionalizzate, idonee ad affrontare i futuri scenari operativi.
In quaranta giorni, quindi, e con i condizionamenti del caso non si può pensare di operare né un processo formativo né il conferimento di competenze militari. La formazione richiede processi lunghi e l’acquisizione di capacità militari presuppone lo studio e la pratica di un ampio spettro di processi, nonché l’uso di attrezzature sempre più sofisticate.
È altresì vero che, negli ultimi tempi, si è tornato a parlare di ripristinare la coscrizione obbligatoria, come se le istituzioni militari fossero già l’ultimo baluardo per salvare la nostra società ormai dedita solamente al lassismo e alla continua richiesta di diritti, dimenticando invece i doveri.
Dove sta fallendo la famiglia e la scuola
non possono certo porre rimedio le Forze Armate. Chi chiede il ritorno alla naja dimentica (oppure ignora) che la coscrizione obbligatoria è determinata da fattori sociali, economici, culturali e geopolitici.
Ultimo, ma non per importanza, che non esistono più le strutture, mentre le risorse economiche verrebbero distolte all’attuale bilancio della Difesa. Cosa che non entusiasma certo i militari di professione.
Scrive Gloria Callarelli [ https://fahrenheit2022.it/2022/12/17/grazie-a-dio-orwell-e-esistito/ ] giornalista nata a Vittorio Veneto (TV), laureata in “Scienze della comunicazione e produzione multimediale” all’Università di Padova:
«…se George Orwell non fosse esistito noi forse oggi non riconosceremmo neanche la presenza della neolingua in tutti i canali che ci circondano. Neolingua fatta di rovesciamento di significato, di parole inventate o utilizzate ad hoc, stravolgendone la semantica in modo utile a costruire una realtà altra, diversa. […] Nello stordente giro di parole, ad esempio, si tratta di riscrivere la verità: la pace sarà chiamata guerra, la menzogna verità…» (Gulp!) Vedasi il mitico best seller “1984” di George Orwell.
Non bastasse c’è chi ha teorizzato il ritorno all’aristocrazia guerriera.
Nel pensiero antico, nella teoria della tripartizione delle forme di governo (di uno, di pochi, di molti, cioè, rispettivamente: monarchia, oligarchia, democrazia), l’aristocrazia rappresenta la forma non deviata dell’oligarchia (che, soprattutto in Platone e Aristotele, è il governo in favore e nell’interesse dei ricchi anziché della comunità). La classe dei nobili dediti all’esercizio delle armi; dei patrizî che detengono il potere.
Una condizione presagita Dwight “Ike” Eisenhower nel suo discorso di addio alla presidenza degli Stati Uniti del 19 gennaio 1961 [ Dwight Eisenhower 19.1.1961 – Il complesso militare-industriale sta condizionando la democrazia. – YouTube ] sul complesso militare-industriale che stava condizionando la democrazia. Ovvero, l’industria degli armamenti per esistere ha bisogno della guerra, allo stesso modo in cui l’esistenza dei soldati di professione debbono la loro condizione alla belligeranza continua. I successi “guerrieri” di questi ultimi sono una precondizione per accedere alle più alte cariche istituzionali.
La democrazia è il Dio che ha fallito.
Lo teorizza il libro del filosofo statunitense Hans-Hermann Hoppe. Il nucleo di questo libro è un trattamento sistematico della trasformazione storica dell’Occidente dalla monarchia alla democrazia. Revisionista di natura, H.H. Hoppe giunge alla conclusione che la monarchia è un male minore della democrazia, ma delinea le carenze in entrambi.
Abolire i partiti politici?
A proporre una democrazia libera dai partiti fu non già un dittatore, ma Simone Weil. Incaricata, nel 1943, dal governo di De Gaulle in esilio, durante la guerra, di elaborare una forma di Costituzione per la Francia futura. Essa pensò in modo radicalmente nuovo, a come garantire la libertà da ogni limite: e l’esistenza di partiti era, per lei, il limite più insidioso.
Il risultato del suoi pensieri è scritto nel suo libro migliore: «L’enracinement» (nell’edizione italiana, «La prima radice»). Ed anche nel: «Manifesto per la soppressione dei partiti politici»
Vi si legge: «Dovunque ci sono partiti politici, la democrazia è morta. Non resta altra soluzione pratica che la vita pubblica senza partiti.»
I taglienti contributi di Simone Weil, filosofa pacifista e mistica, morta a soli 34 anni, in cui la mentalità prevalente dell’epoca veniva torturata quasi sadicamente: «i partiti anglosassoni – scriveva la Weil – contengono un elemento giocoso nella competizione che ne rivela l’origine aristocratica, mentre nei partiti europei è tutto terribilmente serio, il che ne rivela l’origine plebea; con i giacobini si inaugura la gloriosa tradizione per cui la formula vincente è “un partito al potere tutti gli altri in prigione”; i partiti sono “macchine di passione collettiva” che opprimono il pensiero individuale e perpetuano se stesse.
Con loro trionfa la menzogna, “una lebbra che si può superare solo con la loro soppressione”.»
«Bisogna creare un’atmosfera culturale tale,»
continua Simone Weil, «che un rappresentante del popolo non concepisca di abdicare alla propria dignità al punto da diventare membro disciplinato di un partito».
Simone Weil respinge l’obiezione che l’abolizione dei partiti avrebbe colpito la libertà di associazione e di opinione. «La libertà d’associazione è, in genere, la libertà delle associazioni», contro quella degli esseri umani.
Infatti, «la libertà d’espressione è un bisogno dell’intelligenza, e l’intelligenza risiede solo nell’essere umano individualmente considerato. L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente, quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione.»
Non stupisce che di questi tempi ricompaia con successo nelle librerie «Democrazia senza partiti» di Adriano Olivetti. Un protagonista dell’industria, del design e della cultura italiana degli anni 1950, che fondò, tra le altre cose, la rivista e il Movimento di Comunità, con il quale riuscì a essere eletto, unico, in Parlamento.
L’ispirazione liberal-sociale dell’imprenditore di Ivrea contrastava l’egemonia della Dc a destra e del Pci a sinistra, con un’idea di autogoverno basato su piccole comunità, e collocava al centro della vita pubblica la capacità critica della persona-cittadino, non le grandi organizzazioni di parte.
Olivetti riscopriva le riserve sui partiti politici
di Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti, Marco Minghetti e Piero Gobetti, che in tempi diversi avevano denunciato la tendenza di queste entità politiche a favorire gli amici, a ingerirsi nella vita pubblica, ad opprimere gli avversari, a condizionare la giustizia
Molti altri sono gli autori che teorizzano la scomparsa dei partiti, e Damiano Palano ne scrive, qui:
[https://www.academia.edu/5252013/Abolire_i_partiti_politici_Rileggere_Simone_Weil_e_Adriano_Olivetti_pensando_alla_Terza_Repubblica ] nel 2013.E per concludere, noi vorremmo suggerire per l’ennesima volta la lettura e l’interpretazione dell’Articolo 49 della Costituzione italiana:
«Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
In questo articolo le parole chiave sono “diritto”, ovvero tutti i cittadini hanno diritto a costituirsi in partiti, non l’obbligo.
Mentre le altre due parole chiave sono:
“per concorrere”, vale a dire che se i partiti politici contribuiscono a concorrere. Chi sono gli altri “concorrenti” e “contributori” (?) che partecipano alla determinazione della politica nazionale se non i cittadini stessi in prima persona attraverso gli istituti di partecipazione popolare che genericamente sono: Istanze, Petizioni, Proposte d’iniziativa popolare di leggi, o di delibere per gli enti locali, i referendum senza quorum confermativi o abrogativi o d’iniziativa (quelli “consultivi” sono solo una furto di democrazia), la revoca o recall di politici e burocrati [vedasi qui, ma ci sono molti altri siti che approfondiscono il tema: https://en.wikipedia.org/wiki/Recall_election ]
Dal 1948 ad oggi, i partiti politici sono stati, effettivamente, gli indiscussi protagonisti della politica nazionale che è stata da loro ‘determinata’ nel Parlamento, nel Governo, nella Pubblica Amministrazione, nell’economia, nell’informazione, nella cultura e così via.
Più difficile è, invece, sostenere che i partiti siano stati, come prescrive la Costituzione, gli strumenti attraverso i quali i cittadini hanno attivamente partecipato alla determinazione delle scelte politiche e delle classi dirigenti dei partiti stessi, realizzando quella ‘democrazia di massa’ o democrazia ‘organica’ che era stata auspicata all’Assemblea Costituente da Elio Basso e da Palmiro Togliatti, da Costantino Mortati e da Aldo Moro.
Historia magistra vitae
Nell’antica Repubblica di Venezia i partiti erano scoraggiati. L’affiorare di partialitates all’interno del corpo politico veniva concepito invariabilmente come un processo lesivo della concordia e del bonum commune. E il popolo godeva di libertà ignote a noi contemporanei.
La conferma ci viene dall’aneddoto della Vecia del Morter. Al secolo Lucia (o Giustina) Rossi, che ha vissuto tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo a Venezia, e si è inconsapevolmente ritrovata protagonista di uno sventato colpo di stato.
Il 15 giugno 1310 Baiamonte Tiepolo, un giovane ribelle appartenente alla nobiltà veneziana, organizzò un partito insieme ad altri patrizi per una congiura atta a rovesciare il governo della Serenissima e prendere il potere. Il gruppo di insorti arrivò fino quasi Piazza San Marco, dove avrebbe assalito Palazzo Ducale, se non fosse che la signora Lucia, affacciatasi alla finestra attirata dal trambusto sottostante, fece cadere un pesante mortaio sulla testa del portabandiera dell’esercito dei rivoltosi, uccidendolo sul colpo.
Lo spavento e la sorpresa, uniti al sospetto che la congiura potesse essere scoperta, portarono scompiglio tra il gruppo di congiurati, che vennero così facilmente bloccati dall’esercito della Serenissima.
L’anziana donna, come ricompensa per aver salvato la città, chiese solo che l’affitto della sua casa non fosse mai alzato, e così avvenne fino alla caduta della Repubblica. Da quel giorno, inoltre, il Doge concesse alla donna e a tutti i suoi discendenti il diritto di esporre il gonfalone di San Marco il 15 giugno, giorno dell’anniversario dell’accaduto, e nelle altre solennità.