Lettere e Opinioni

Anche gli Imperi periscono quando scompare l’idea su cui sono fondati

Da quando nell’ottobre 2020 il New York Post ha pubblicato un numero iniziale di e-mail che presumibilmente provenivano dal laptop di Hunter Biden, è emersa una serie di altre e-mail e messaggi di testo che suggeriscono scorrettezze tra i suoi affari esteri, e suo padre Joe Biden mentre era vicepresidente degli Stati Uniti. – Anche gli Imperi periscono quando scompare l’idea su cui sono fondati

Il nuovo proprietario di Twitter Elon Musk

ha rilasciato rivelazioni bomba su ciò che ha portato il gigante della tecnologia a sopprimere la storia di Hunter Biden nelle ultime settimane delle elezioni presidenziali del 2020.

James Baker, un ex consigliere generale dell’FBI precedentemente coinvolto nell’indagine sulla collusione con la Russia, ora probabilmente dovrà affrontare un interrogatorio davanti al Congresso (a gennaio o febbraio 2023) dopo essere diventato vice consigliere di Twitter.

Sempre Elon Musk ha pubblicato le rivelazioni sul laptop di Hunter Biden su Twitter attraverso il giornalista di Substack Matt Taibbi

In Usa giornalisti come Glenn Greenwald [ https://en.wikipedia.org/wiki/Glenn_Greenwald ], Matt Taibbi [ https://en.wikipedia.org/wiki/Matt_Taibbi ], ma anche Bari Weiss

[ https://en.wikipedia.org/wiki/Bari_Weiss ], e tanti altri, pur di essere più indipendenti e poter trattare di quello che gli pare come vogliono, hanno lasciato i grandi giornali e le grandi corporations dei media dove lavoravano, spostandosi su Substack, Rumble, Locals, etc.

Qui [ https://greenwald.substack.com/p/article-on-joe-and-hunter-biden-censored ] Glenn Greenwald pubblica l’articolo su Joe e Hunter Biden censurati da The Intercept; giornale che ha co-fondato nel 2014.

In Italia dove il lutulento mondo dei giornali e giornalisti,

con qualche ovvia eccezione che tuttavia in questo momento non siamo in grado di ricordare (e ce ne dispiace), è quanto di meno indipendente si possa pensare. Quanti hanno fatto altrettanto relativamente agli accadimenti degli ultimi due anni?

L’edificazione di uno Stato-nazione può essere auspicata, favorita, promossa purché sussistano alcune condizioni, quali il rispetto della giustizia, la volontà maggioritaria del popolo, il miglioramento delle condizioni di vita.

Sicuramente il Marchese Massimo d’Azeglio, uno degli uomini politici piemontesi protagonisti del processo di unificazione dell’Italia, non aveva previsto che la celeberrima frase con cui commentava la nascita del Regno d’Italia proclamato nel 1861 sarebbe diventata proverbiale. Anche se a dire il vero, pare che quella frase: «Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani», non l’abbia mai detta.

Tutto sommato è stato preferibile che altrettanta popolarità non sia stata acquisita da una “perla”, questa sì che l’ha scritta, che leggiamo nel suo Epistolario: «In tutti i modi la fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaioloso!». La dice lunga su che cosa pensassero i “patrioti” piemontesi degli altri Italiani.

Tuttavia con una guerra espansionistica, nel marzo 1861, il pur piccolo Regno di Sardegna diventò il Regno d’Italia mentre al Sud la gente ancora piangeva per le stragi operate, solo pochi mesi prima, dal generale sabaudo Enrico Cialdini sull’inerme popolazione civile di Capua, o dal colonnello Pier Eleonoro Negri responsabile delle stragi di Pontelandolfo e di Casalduni, con l’approvazione e l’elogio del Primo Ministro di casa Savoia, Camillo Benso di Cavour.

A girovagare per Internet si può trovare la Cronologia dell’Unità d’Italia, stilata in due paginette.

Difficilmente si troverà la cronologia degli scandali che si sono avuti dall’unità ai giorni nostri. Un elenco, forse, troppo lungo. Sicuramente disgustoso.

Scrive lo storico Nicola Zitara:

«La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all’intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l’uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti.

Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un’auto sconfessione. Quando, alla fine, quelle “innovazioni”, vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo. […] Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l’assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare le spese della guerra d’annessione.»

E che dire del fatto che di fronte all’avanzare di Garibaldi con i suoi Mille, “Tore ‘e Crescienzo”, alias Salvatore de Crescenzo, il primo vero capo della camorra, fu chiamato nelle stanze della prefettura dal prefetto Liborio Romano con una proposta: redimersi per diventare guardia cittadina, con quanti compagni avesse voluto, col fine di assicurare l’ordine? La “camorra in coccarda tricolore”, ben lungi dall’essere disciplinata come sperava il prefetto, trovò nella divisa la sua legittimazione.

Il Risorgimento italiano fu un’operazione manu militari.

Furono invasi i piccoli e i grandi Stati della penisola. Insomma, come se, per esempio, in tempi recenti, per fare l’UE, uno Stato – la Germania o la Spagna – avesse invaso gli altri Stati e avesse detto: “ora siamo uniti”. Ogni persona che crede nella giustizia, non può ammettere ciò che accadde in Italia nel secolo XIX.

Il filosofo Augusto del Noce ha significativamente definito il Risorgimento italiano “un capitolo dell’imperialismo britannico”. Antonio Gramsci – lo storico marxista – osservava: “I liberali di Cavour concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia”.

Questa gente “fa l’Italia” ma gli Italiani continuano a rimanere estranei a questo Stato-nazione. Un fiscalismo esoso fu imposto per tentare di pareggiare il bilancio disastroso che il Regno di Sardegna, unificata l’Italia, aveva portato in “dote”; ovvero il suo spaventoso debito pubblico accumulato con le “guerre d’Indipendenza”.

Milioni e milioni di Italiani emigrarono.

Nel nuovo Stato-nazione avevano fame ed erano ammalati.

Sfogliando gli atti parlamentari, datati 12 Marzo 1873, sulle condizioni sanitarie del paese: “la tisi, la scrofola, la rachitide, tengono il campo più di prima; la pellagra va estendendo i suoi confini; il vaiuolo rialza il capo; la difterite si allarga ogni giorno di più”. Si emigra.

Non si tratta di una emigrazione individuale, ma di gruppo. All’interno di questi gruppi il prete occupa molto spesso la funzione del capo. La terra di conquista è l’America meridionale, soprattutto il Brasile e l’Argentina. La gente comincia a partire. A gruppi, a centinaia. La gente, specialmente quella veneta, non ha voglia di battersi sul posto.

Dovrebbe opporsi all’ordine costituito e questo contrasta con la sua mentalità, rispettosa dell’autorità. Per sottrarsi ad una condizione diventata insopportabile non rimane che l’emigrazione. Anche coloro che all’inizio erano contrari alle partenze, ora si arrendono. Capiscono che se l’emigrazione fosse frenata, scoppierebbe la rivolta. E le rivolte comunque ci furono: vedi “la Boje”. [ http://www.berrettofrigio.org/joomla/le-canzoni/la-boje ]

La gente parte dicevamo.

A volte si muovono interi villaggi, con il parroco in testa. Partono anche di notte, al buio e in silenzio, quasi fosse tempo di guerra e il nemico stesse in agguato. Qua e là si ode il grido: Viva l’America! Morte ai signori! L’emigrazione diventa veramente, per tutto un popolo, una liberazione: dai padroni oppressori, dalla terra che non li mantiene, dal bisogno che incalza, da un Governo inesistente e insensibile. «Noi andiamo in Brasile – gridano alcuni – Ora toccherà ai padroni lavorare la terra…».

La partenza è vissuta come un avvenimento doloroso, ma necessario. Rompe una situazione di miseria senza scampo e apre una porta alla speranza. Per questo, a volte, centinaia di persone si mettono in movimento insieme, lentamente, al suono delle campane, come nelle grandi feste, e alla testa della processione vi è un grande Crocefisso o lo stendardo di un Santo che gli emigrati porteranno con loro nella nuova patria.

Già nel 1876 un certo Don Munari, parroco di Fastro nel Comune di Cismon del Grappa, era partito per il Brasile con un gruppo di circa 300 emigranti. Ed è grazie agli emigrati veneti che la colonia di Caxias, nel Rio Grande do Sul, conosce uno sviluppo straordinario. In meno di 50 anni passa dalla foresta alla piena industrializzazione.

Fondata nel 1875, dopo soli tre anni aveva quasi 4.000 abitanti. Nel 1898 gli italiani erano 25.000, i nove decimi della popolazione. Nel 1877, su iniziativa di una strana figura di prete-reclutatore che aveva posto la sua centrale nel Canal del Brenta, vicino a Bassano del Grappa, erano stati avviati alla volta del Brasile oltre 2.000 contadini della zona. Formeranno uno dei primi insediamenti italiani nel Paranà, a Curitiba.

Nel 1898 gli operai a Milano

sfilarono per protestare contro l’ingiustizia sociale: chiedevano pane.

Passata alla storia come la “Protesta dello stomaco”, il governo guidato da Antonio di Rudinì proclamò lo Stato d’assedio e il generale Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio Commissario Straordinario, ordinò di sparare cannonate sulla folla provocando una strage in cui furono uccisi 80 cittadini e altri 450 rimasero feriti.

Ma si tratta di cifre ufficiali poco convincenti. Il numero di vittime effettive non si saprà mai. In segno di riconoscimento per quella che dalla monarchia fu giudicata una brillante azione militare, Bava-Beccaris ricevette il 5 giugno 1898 dal re Umberto I la Gran Croce dell’Ordine Militare.

Superata la I. G.M. ci fu l’avvento del fascismo sul quale non ci soffermiamo per brevità. Sono stati scritti tanti di quei libri da riempire intere biblioteche. Il fascismo portò alla II G.M. e liberata l’Italia ad opera degli Alleati, la resistenza antifascista accampò meriti, elargì patenti, occupò il potere. Tutti i partiti, con l’eccezione del MSI erano antifascisti. Gli scandali non diminuirono: Vajont, Lockheed, Montedison, solo per citarne alcuni considerato che la lista sarebbe assai lunga.

Anzi furono il “brodo di cultura” del terrorismo rosso e di quello nero, complice anche il clima della guerra fredda.

Seppellita la cosiddetta Prima repubblica, intorno alla prima metà degli anni 1990, ad opera degli scandali di Tangentopoli ecco il sistema Palamara [ L’antisistema Palamara sopravvive e si legittima come nuovo “Sistema” – https://www.editorialedomani.it/giustizia/lantisistema-palamara-sopravvive-e-si-legittima-come-nuovo-sistema-c7qk1fgs ]. Ai giorni nostri la corruzione è aumentata, mentre la classe politica non esprime alcuna qualità.

Su quale idea, dunque, dovremmo sostenere l’unità dello Stato italiano?

Al contrario la nostra idea è: unire gli individui ed i popoli nella libertà e nella diversità, lasciando ognuno padrone a casa propria; ovvero varare un sistema autenticamente federalista.

Sarebbe un modo semplice per condividere con altri ciò che pensiamo per cambiare pacificamente la forma di Stato e di governo di questo paese, e di rifiutarsi di essere complici di un sistema basato sui partiti corrotti, voluto da incapaci, votando i quali saremo perennemente complici di questa insopportabile perché fittizia democrazia.

Scriveva il giornalista e scrittore Tiziano Terzani: «Oggi, per i più, democrazia vuol dire andare ogni quattro o cinque anni a mettere una croce su di un pezzo di carta ed eleggere qualcuno che, proprio perché deve piacere a tanti, ha necessariamente da essere medio, mediocre e banale come sono sempre state tutte le maggioranze.

Se mai ci fosse una persona eccezionale, qualcuno con delle idee fuori del comune, con un qualche progetto che non fosse quello di imbonire tutti promettendo felicità, quel qualcuno non verrebbe mai eletto. Il voto dei più non lo avrebbe mai.»

L’idea da condividere dovrebbe essere quella che l’individuo,

e non lo Stato unitario definito arbitrariamente “sovrano” e imposto con la forza e con l’inganno, è il titolare unico della propria volontà che giuridicamente è sovranità.

In quanto diritto naturale, la sovranità dell’individuo non può essere ceduta, neppure parzialmente, né essere oggetto di legge ma solo di garanzia costituzionale. Pertanto tutto ciò che oggetto di governo della società e della comunità, deve essere fatto o almeno legittimato dalla maggioranza dei cittadini sovrani.

Senza questa legittimazione la legge dello Stato non può avere valore giuridico e deve essere considerata una violazione del diritto naturale, di cui sono responsabili i rappresentanti ed i partiti che l’hanno imposta. Solo in questi termini ognuno potrà essere l’artefice del proprio destino e del destino della future generazioni.

E a nulla valgono, se non ad inquinare il dibattito politico,

quei sedicenti partiti indipendentisti che non sono in grado di produrre e proporre un nuovo progetto politico-istituzionale, o peggio coloro che chiedono il voto per entrare nelle istituzioni italiane per modificarle dal “di dentro”. Questa è una fanfaluca a cui gli elettori hanno già abboccato senza costrutto per decenni.

La questione sostanziale è che i partiti sono organismi pubblicamente, ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia.

Già nel 1943, scriveva Simone Weil:

Le lotte tra fazioni nel periodo del Terrore furono governate dal pensiero così ben formulato da Tomskij: «Un partito al potere e tutti gli altri in prigione». Così, sul continente europeo, il totalitarismo è il peccato originale dei partiti.

Il fatto che esistano non è in alcun modo un motivo per conservarli. Soltanto il bene è un motivo legittimo di conservazione. Il male dei partiti politici salta agli occhi. La questione da esaminare è se ci sia in essi un bene che abbia la meglio sul male e renda così la loro esistenza desiderabile.

Per apprezzare i partiti politici secondo il criterio della verità, della giustizia, del bene pubblico, conviene cominciare distinguendone i caratteri essenziali. È possibile elencarne tre:

  1. Un partito politico è una macchina per fabbricare passione collettiva.
  2. Un partito politico è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte.
  3. Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite.

Per via di questa tripla caratteristica, ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli che lo circondano non lo sono di meno.

Calzante, infine, l’invettiva che nel 1600 lanciò Giordano Bruno prima d’essere arso vivo a Roma, in Campo de’ Fiori: «Ho sbagliato quando ho creduto di chiedere proprio a Voi, di condannare un sistema di arbitrio, di sopraffazione, di violenza […] che mortificazione […] chiedere a chi ha il potere di riformare il potere! Che ingenuità!»

Enzo Trentin

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