Lettere e Opinioni

Guai ai poveri

Nella nostra società i tribunali decidono dell’appartenenza di ceto. Il sistema giudiziario è realizzato con un ufficio ad impulso e sviluppo privati che, arruolando diseguali qualità di difesa, confermano vistose differenze sociali e politiche. Schierata sfacciatamente dalla parte dei ricchi, la “legge uguale per tutti” è un percorso in un campo minato nel quale la povertà dovrà per forza pestare il detonatore.

Le liti fra attori con differenti condizioni economiche e sociali si chiudono con sentenze il più delle volte favorevoli a chi appartiene al ceto più alto. Le classi agiate sono favorite nel fornire prove e nell’attivare procedure. Nel processo penale l’accesso alle innumerevoli garanzie e alla prescrizione è riservato agli abbienti. Tutta la politica ha costruito nel tempo leggi tali da rendere il sistema giudiziario incapace di punire un benestante. Dove non arrivano le sostanze del ceto facoltoso a garantirgli l’impunità, spesso ci arriva la corruzione con la sua rete politica e sociale, una circostanza impossibile ai poveri.

I codici puniscono i violenti, meno gli imbroglioni, per niente i ladri del pubblico erario. In galera ci sono stranieri e tossici, con reati contro la persona e il patrimonio. Molte pene sono pecuniarie, cioè inutili a punire i facoltosi, e i veri delinquenti si sono ritagliati reati imperseguibili o, punibili su misura, e spesso ai domiciliari. Con questo scenario si capisce come mai la povera gente abbia paura di incappare nelle maglie del sistema.

Intanto i ricchi, che sono stati sorpresi da indagini a loro carico, giocano a nascondino, finché la “ragionevole durata del processo” e la “civiltà giuridica” non permettono loro di fare tana libera tutti. E, quando sciaguratamente uno di loro è costretto ad andare in galera, prendono il via i lamenti per i diritti umani violati: per lo stato di salute precario, per le condizioni carcerarie. Domande di grazia spesso accolte.

In tutto e per tutto il sistema giudiziario è un meccanismo che punisce le classi misere, e il blocco della prescrizione può rappresentare un’inversione di tendenza, anche se l’impianto resta mostruosamente iniquo. Le poche voci contro l’estinzione dei processi sono trattate come tentativi giustizialisti di pazzi odiatori. L’odio, appunto, ovvero la leggera coscienza del trucco sociale, è preso di mira dalla destra plutocratica (Berlusconi e la sua invidia sociale), dalla sinistra politically correct, e da poliziotti di Stato (ministro Lamorgese), che vorrebbero impedire la giusta reazione di un popolo calpestato.

L’Italia ha un sistema giudiziario impallato a causa di un rapporto giudici/avvocati di 1/25 (gli avvocati sono 246mila); un numero di avvocati e un rapporto con gli abitanti (4/1000) insostenibili. Nei tribunali arrivano una serie di reati che dovrebbero essere depenalizzati e che invece soffocano il sistema. I giudici sono tenuti buoni dalla politica e lautamente retribuiti per il loro contributo all’ordine sociale: alcuni di essi (giudici costituzionali) sono i più pagati al mondo. Finora i ministri della giustizia hanno contribuito a rendere il sistema giudiziario innocuo per i potenti. Il giudice Gratteri, tecnico di buona volontà, è stato eliminato appena in tempo dalla direzione del dicastero.

E’ inutile dire che Travaglio, Davigo, Gratteri, Bonafede, Di Matteo e Scarpinato, sono gli unici schierati a sfavore della prescrizione. Se questo fosse vero, vuol dire che in Italia i ladri sono la maggioranza assoluta, e che le logiche argomentative e il rispetto della democrazia sono strumenti spuntati. Il sistema ha paura solo della violenza, che è poi il reato più perseguito dai giudici. Ma al popolo non resta che odiare, con tutta la forza che gli è consentita; non resta che scendere in piazza per scrollarsi di dosso l’oppressione dei furbi.

Giuseppe Di Maio

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