Lettere e Opinioni

Orgoglio italiano?

Vicenza – Recentemente, un insegnante vicentino in pensione s’è lasciato andare a questo commento pubblicato in Facebook: «Storicamente quando si parla di Nazione, si deve intendere una Grande Famiglia umana legata da comunanza di origine, di lingua, di tradizioni, di religione, di territorio, con volontà di vita politica unitaria. Dopo 100 anni dalla conclusione della Grande Guerra, L’Italia, ha oramai consolidata la sua unitarietà, sul piano geografico, morale, religioso.

Di recente in Piazza all’alzabandiera uno scrosciante applauso ha salutato il tricolore che saliva sul pennone di Contrà Cavour, molti cantano l’Inno di Mameli altri Bella ciao. Dopo 1000 anni di battaglie, penso che gli Italiani siano uniti negli ideali, ma divisi dai partiti divenuti soggetti divisori. I Comuni, furono praticamente il soggetto storico che, con la Chiesa e l’Impero, hanno costruito per primi l’idea dell’Italia, bloccata a causa della lotta secolare tra Papato e Impero, tra guelfi e ghibellini.

Federico I° Barbarossa, scese in Italia ben sei volte dal 1154 al 1183, imponendo con le sue armate la politica degli Hohenstaufen residenti nel castello di Waiblinghen da cui il termine Ghibellini e dai Bavaresi favorevoli al papato che dal nome Welf del loro capostipite in Italia furono chiamati Guelfi. In molti paesi Europei la Monarchia regna da tempo. Ma la Storia Veneta ha avuto protagonisti diversi, altre istituzioni come: il Papato, I Comuni, La Repubblica Serenissima durata 1000 anni, i grandi movimenti innovatori della nascente Italia sono derivati dalle idee di letterati, filosofi, artisti, scienziati, poeti come Dante Alighieri e Francesco Petrarca che, per primi furono i teorici della politica italiana.

Francesco Petrarca 1304-1374. Era orgoglioso di essere italiano: Italicus sum. Il poeta rivendicò più volte l’identità Nazionale Italiana, specificando: Sumus enim non graeci, non barbari, sed Italicus et Latini. La Nazione, ha oramai una entità consolidata, sul piano storico geografico, morale, religioso, linguistico. Bisogna quindi essere orgogliosi di appartenere alla comunità Vicentina e Veneta. Per essere cittadini, bisogna sentirsi tali, avere la percezione del Dovere alla identità Italiana, partecipare alla vita comunitaria, molto prima che chiedere Diritti. Gli Italici, i “diritti” le li sono guadagnati nei secoli con milioni di morti e fiumi di sangue. Ma come siamo arrivati ad avere una lingua Comune?

Tra l’VIII° e il X° secolo, in Italia e nei luoghi più disparati, si diffonde un linguaggio comprensibile ai più, derivato dal latino, usato negli atti giuridici, nelle Istituzioni, negli scambi commerciali, nelle mappe, questa lingua volgare sgrammaticata fu la premessa al destino comune che sarà l’Italia. Frasi, luoghi, misurazioni appaiono nei documenti e pergamene in ogni sito. La documentazione storica si scopre in primis a Lucca nel 746 ed è una indicazione topografia: da una latere curre via pubblica. Nel 767, un documento scrive di un Loco ubi non cupatur Rio Torto. Siena 816 una pergamena descrive in volgare una misurazione di terreni: avent in logo perticas quatordice in traverso, de uno capo pedas dece, dealio nove intraverso, da uno capo duos pedes, cinque de alio capo.

Le misure espresse in volgare sono le stesse usate dai romani: cubiti, piedi, pertiche, anche il lessico italiano moderno è originato dal latino volgare che nel X° secolo per eventi politici, sociali, economici, religiosi diventa la lingua utilizzata dal Nord al Sud per identificare cibi, misure, contratti. Anno 960. La carta di Capua, custodita a Montecassino, riporta la testimonianza dovuta per una lite di possesso tra il Monastero e tal Rudergino. I testimoni giurano con la seguente formula “Sao che chelle terre per chelli fini que qui contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.” Questo linguaggio si diffonde in tutta Italia.

Roma, 1080. In un cantiere edile, si sta innalzando un obelisco, il capo mastro incalza i manovali : “Fa live (fai leva) di retro co’ lo palo. Carvoncello. Albertel Trai. Figli de puta traite”. Queste forme diffuse di linguaggio comunitario Nazionale danno il via alle lingue francese, catalano, ladino, provenzale. Anno 1224 – Con il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi avremo: Altissimo, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria, e l’onore et benedictione. I due secoli successivi all’anno 1000, sono per l’Italia il grande dramma storico, che porterà sulla scena d’Europa, il cammino di un popolo verso l’Unità, con municipalismi conflittuali, ma con una chiara identificazione di Nazione, popolo, lingua, Stato, esplosa con il Risorgimento.»

Questo modo di pensare (e di insegnare?) intende proteggere quanto più è possibile il potere politico dalla società alla quale dovrebbe legittimità. Un grandissimo guazzabuglio che è riuscito a reggere grazie al monopolio (o almeno sonante egemonia) nei mass media, nei sindacati, nelle università, ove due pesi e due misure è stato ed è normale respiro. Ma a prezzo di una confusione terribile. Un  gioco delle tre carte quotidiano. Una propaganda degna di un Joseph Goebbels, ovunque applicando con rigore i principi della “morale democratica” che di democratico in questo paese ha assai poco. Una vera e propria “dittatura della cultura”. Appaiono, dunque, opportuni qualche commento e constatazione:

“Uniti negli ideali”? Quali? Se parliamo di lingua l’italiana essa è l’idioma toscano. In casa Savoia (che erano francesi e non piemontesi) all’epoca dell’unità d’Italia (1861) si parlava francese. I Savoia non imponevano mai lingue completamente estranee alla tradizione locale. In Piemonte, Nizza e Liguria la lingua era l’italiano e non il francese, perché non era nel loro interesse dare spazio a future ingerenze francesi su un proprio possedimento. Proprio per questa ragione premiarono l’Italiano in luogo dello spagnolo. 

Quali sono gli ideali nell’attuale conduzione della cosa pubblica? Oggi le grandi opere: Tav/Tac, Mose, Alitalia, autostrade, banche, pedemontane varie sono “veicoli” di corruzione o acquisto di consenso elettorale. La situazione economica del paese è lì a testimoniarlo (vedi qui). Se mai ci furono, questi ideali (ma si trattava di geopolitica) furono quelli contro il comunismo; che in Italia contava il partito più forte d’Europa dopo l’URSS.

Si può concordare sul “essere orgogliosi di appartenere alla comunità Vicentina e Veneta”; perché in questi territori si sviluppò la civiltà comunale: intorno alla metà del 1200 Vicenza è addirittura città-stato.  Per comprendere cosa questo significhi, è necessario tener presente che sin dagli albori della storia la società dell’uomo era stata dominata da un principio politico indiscusso e indiscutibile, addirittura sacro: nessuna comunità poteva nascere, sopravvivere e crescere senza che un monarca la reggesse, ovviamente per diritto divino. 

Con la civiltà comunale c’è invece la repubblica, la democrazia, l’autogoverno locale, la volontà che sale dal basso, i governanti controllati dai governati (quindi i cittadini, comunque abbiano votato – ma spesso c’è l’estrazione -, tutti all’opposizione rispetto al governo), il governo forte coi forti e debole coi deboli, il governo dei molti (o di tutti: quod omnes tangit ab omnibus adprobari debet, ossia ciò che riguarda tutti da tutti deve essere approvato) e quindi l’ottimismo verso la capacità del popolo di autogovernarsi. In sintesi, e schematizzando, si può dire che quanto più una situazione è democratica, repubblicana, tanto più il potere è decentrato e diffuso e la volontà sale dal basso, quanti più sono quelli che governano. È una constatazione che fa, circa un secolo prima, in un giorno del 1143 Otto von Freising, ossia Ottone di Frisinga, vescovo e studioso nonché zio di Federico I° di Svevia detto il Barbarossa, che durante un viaggio scoprì – assai scandalizzato, ci dice il professor Quentin Skinner di Cambridge – come quel sacro principio in Italia era stato violato. 

Nel nord della Penisola infatti le città si governavano da sole. Era successo che lì, intorno all’anno Mille e per la prima volta nella storia allora nota, i sudditi si erano ribellati alla signoria, ad ogni forma di signoria laica o religiosa che fosse, e si erano trasformati in cittadini e costituiti in libero Comune, privando per maggiore cautela, soprattutto in Toscana, e a Venezia (qui non c’era l’aristocrazia nobiliare, al massimo i più meritevoli erano appellati come Nobil Homo), la nobiltà di ogni diritto politico attivo e passivo. A Siena, che fu più rigorosa di ogni altra città sotto questo aspetto, la norma rimase in vigore fino alla caduta della Repubblica nel 1555. Ultimo libero Comune a cadere ad opera di Carlo V d’Asburgo. Alla difesa di Siena combatterono anche le donne, e Blaise de Montluc, rappresentate   dell’imperatore ed uno dei più importanti condottieri del secolo, scriverà nelle sue memorie: “preferirei difendere Roma con le donne senesi piuttosto che con i soldati che là stanno”. 

Insomma, non c’era più una plebe, ma un popolo capace di provare sentimenti nuovi e straordinari come l’amore per la città-patria, la fierezza di sentirsene cittadino pari a tutti gli altri e di sentirsene nel contempo, sempre insieme agli altri, padrone. Si trattava, in sintesi, dell’orgoglio civico e di tutto il resto che oggi va sotto il nome di capitale sociale: il civismo, i pari diritti, la fiducia e il rispetto reciproci, la solidarietà, la cooperazione, tutto quello insomma che ancora, dopo quasi mille anni, distingue il nord del Paese da un sud a cui quell’aspirazione fu negata, talvolta soffocandola nel sangue. 

Interessante sarebbe parlare dei vari Pali comunali. Ovvero le grandi manovre attraverso le quali il popolo (borghesi, commercianti, artigiani, mano d’opera varia) si addestravano all’uso delle armi. Una abilità che consentì la vittoria sugli uomini d’arme (i professionisti) nella battaglia di Legnano il 29 maggio 1176 ad opera della Lega Lombarda che comprendeva anche le milizie venete, Vicenza compresa. 

Poi, chiedere oggi Diritti diviene pleonastico, poiché un diritto (quello di partecipare alla vita pubblica) che non viene riconosciuto non vale molto. Per partecipare alla vita comunitaria (fatta eccezione per l’iscrizione ai criticabili partiti politici), si dovrebbero indicare gli strumenti, perché quelli previsti dalla Carta Europea delle Autonomie locali: istanze, petizioni, proposte di delibera, referendum, recall, sono stati totalmente edulcorati dalla partitocrazia imperante. Basti vedere il referendum consultivo addirittura assente in questa prefigurazione dal Decreto legislativo 267/2000 (Testo Unico Delle Leggi Sull’ordinamento Degli Enti Locali ) e sue modificazioni. E che il referendum consultivo sia un furto di democrazia lo dimostra in risultato plebiscitario sull’autonomia (nel 2017, +98% a favore); che quando e se verrà risulterà… “inadeguata” (per usare un eufemismo).

E ancora su: “Gli Italici, i “diritti” se li sono guadagnati nei secoli con milioni di morti e fiumi di sangue”. Qui si può osservare che i morti e i fiumi di sangue sono stati versati da uno Stato che non mai ha mai subito aggressioni da nessuno, e che nei suoi 158 anni di vita ha condotto solo guerre d’aggressione, a partire dalla lotta al “brigantaggio” del sud, che fu una vera guerra d’aggressione (vedi qui).

Singolare che alla figura di Enrico Cialdini (e molti altri della sua “statura”) siano state intitolate vie e piazze. Eppure costui, smessa presto ogni velleità di riprendere gli studi di medicina, condusse per sua stessa ammissione una vita “scioperatissima”. Verso la fine del 1832 si ammalò di colera: quando ne guarì, si recò in Portogallo al servizio di don Pedro, l’imperatore del Brasile tornato in Europa a guidare il partito costituzionale contro il fratello don Miguel. Il 1°marzo 1833 iniziò, così, col grado di granatiere nel 2° reggimento di fanteria leggera, la sua carriera militare. Deciso a combattere, il 9 giugno 1848 si unì al corpo di truppe pontificie che, agli ordini di Giovanni Durando, erano entrate nel Veneto; destinato con Massimo d’Azeglio al settore dei Colli Berici per la difesa di Vicenza, il 10 giugno, durante un sanguinoso quanto inutile contrattacco, ebbe il ventre perforato da una pallottola in maniera che parve fatale. Adeguatamente curato, si riprese; convalescente, chiese di essere arruolato nell’esercito sardo, il solo che gli offrisse la prospettiva di un impiego.

Saltando a piè pari la sua lunga carriera militare, passiamo al 1861. Cialdini entrò nel Molise; vinta presso Isernia la resistenza di contadini e regolari borbonici, diede rigide disposizioni sull’atteggiamento da assumere verso la popolazione. Su queste disposizioni il 14 agosto 1861 il Colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri condusse nella regione di Benevento le operazioni di lotta al brigantaggio postunitario, e in particolare intervenne a Pontelandolfo e Casalduni che vennero quasi rasi al suolo, lasciando circa 3.000 persone senza dimora. Il numero di vittime è tuttora controverso, ma Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella riportano che alcuni autori lo stimano compreso fra il centinaio e il migliaio.

È stupefacente che a questi “eroi” risorgimentali siano dedicate vie e piazze, e – per esempio – i tedeschi che praticarono la stessa dottrina militare siano stati bollati dalla storia come criminali nazisti. Infatti: il 29 settembre 1944, il maggiore Walter Reder, comandante di un battaglione di ricognitori della 16ª divisione Panzergrenadier Reichsführer-SS, sterminarono 1836 civili di ogni età e sesso, devastando l’abitato di Marzabotto (BO). E qui ignoriamo volutamente altri capi militari come il generale macellaio Luigi Cadorna (I G.M.) e Pietro Badoglio (II G.M.), poiché troppo note sono le loro responsabilità.

Sull’orgoglio Italiano perché non ascoltare anche queste voci:

«…penso che l’armistizio di Badoglio sia stato il più grande tradimento della storia…» (Dalle “Memorie” di Bernard Montgomery)
«… la resa dell’Italia fu uno sporco affare. Tutte la nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perse, ma l’Italia è la sola ad aver perduto questa guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della RSI …» (da “Diario di Guerra” di Eisenhower, Comandante supremo delle Forze USA nello scacchiere europeo)
«Certamente non mi garba l’idea che questi ex nemici mutino opinione quando sanno che stanno per essere battuti e passino dalla nostra parte per ottenere d’essere aiutati a mantenere il potere politico.» (Harry Hopkins, consigliere di Roosevelt)
«… il fatto è che il Governo italiano decise di capitolare non perché si vide incapace di offrire ulteriore resistenza ma perché era venuto, come in passato, il momento di saltare dalla parte del vincitore…» (da “Le armate alleate in Italia” del Generale Alexander)
«… l’Italia fu fedele al suo carattere di sciacallo internazionale, sempre in cerca di compenso per i suoi tradimenti …» (da “Storia della diplomazia” di Potemkin, ambasciatore sovietico a Roma). 

Il lettore si metta comodo, è anche necessario qualche cenno sull’emigrazione. Nel 1800 tutta l’Europa emigra. Non si capisce l’emigrazione italiana se si ignora che essa è parte della colossale trasmigrazione che ha portato nell’Ottocento circa 60 milioni di europei al di là dell’Oceano. Un esempio illuminante. Anche la grande Germania aveva, in quegli anni, una forte emigrazione, ma i cittadini tedeschi partivano nell’ordine. Sapevano dove dovevano andare. Erano informati e guidati. Venivano mandati solo dove la terra era buona e dove gli emigrati erano protetti, lasciando agli altri (agli italiani, appunto… ) i posti più difficili. Quella italiana era un’emigrazione senza guida, allo sbando. Era nelle mani degli altri. 

Dal 1876, silenziosamente i padroni delle terre perdono il loro potere a vantaggio dei signori della finanza e dell’industria. Il Mezzogiorno conosce i primi segni della sua condanna. La grande emigrazione italiana trova qui il suo principale terreno di cultura. La sconfitta delle campagne si trasformerà presto in un fiume tumultuoso formato da colonne di contadini cacciati dalle loro terre perché, nella Penisola, sono i signori della finanza e dell’industria che si fanno strada ed il Governo è incapace di sovrastarli.

L’emigrazione coglie il Paese di sorpresa. Nessuno era preparato: né il Governo, né il Parlamento, né la Chiesa, né i partiti. Nemmeno il partito socialista, che pure era il partito dei diseredati. Una corretta narrazione aiuta a capire perché l’emigrazione italiana, in un certo senso necessaria, sia stata fra tutte la più numerosa, la più disperata, la più abbandonata, la più sfruttata. 

A differenza di altri Paesi, in Italia lo sciopero è proibito: chi vi prende parte è punito con il carcere. I lavoratori italiani hanno solo due alternative: ribellarsi o emigrare. La gente parte. A volte si muovono interi villaggi, con il parroco in testa. Partono anche di notte, al buio e in silenzio, quasi fosse tempo di guerra e il nemico stesse in agguato. 

Qua e là si ode il grido: Viva l’America! Morte ai signori! L’emigrazione diventa veramente, per tutto un popolo, una liberazione: dai padroni oppressori, dalla terra che non li mantiene, dal bisogno che incalza, da un Governo inesistente e insensibile. «Noi andiamo in Brasile – gridano alcuni – Ora toccherà ai padroni lavorare la terra…» 

Dopo che già erano una realtà appariscente, nel 1887 i reclutatori saranno riconosciuti ufficialmente dallo Stato. La loro azione sarà nefasta. Nel 1892 in Italia c’erano 30 agenzie di emigrazione e 5.172 subagenti che convincono la povera gente a partire. Gli agenti erano assunti dalle società di emigrazione e molti di loro erano noti per la mancanza di onestà. Dietro a queste società c’erano gli interessi degli armatori e delle compagnie italiane di navigazione responsabili delle tante morti che accadevano durante la traversata. Le illusioni sono molte; gli imbrogli moltissimi. 

Questi reclutatori sono vere e proprie canaglie che promettono mari e monti, ma arrivano da lontano racconti inquietanti. C’è, per esempio, la storia di un bastimento (siamo nell’inverno 1873) carico di contadini abruzzesi diretti a Buenos Aires, dove li attendono parenti ed amici, e che finisce invece a New York. O quell’altra che parla di alcune centinaia di emigranti che avevano venduto ogni cosa; avevano consegnato i soldi a un agente di emigrazione e avevano raggiunto faticosamente il porto di Napoli. Lì avevano scoperto di essere stati truffati ed erano stati rispediti a casa, tra molte lacrime e imprecazioni. 

Sempre dai reclutatori (siamo a Bari nel 1874) gli emigranti ricevono in prestito 100 ducati in lire di carta. Dovranno restituirne 150 in oro. L’operazione è fatta per gruppi di dieci persone, ognuna delle quali è responsabile per tutto il gruppo. Se qualcuno muore durante la traversata o dopo per malattie infettive, quelli che si salvano, anche se è uno solo, devono pagare per tutti. Se spediscono i risparmi a casa, vengono sequestrati alla posta. Quando nel 1887 i reclutatori sono riconosciuti ufficialmente, è difficile credere che lo Stato non conoscesse la loro nefanda attività.

In quella seconda meta del XIX secolo solo un grande Vescovo fa una scelta giusta. Sono ormai 100.000 ogni anno gli italiani che emigrano. Le partenze avvengono in un clima di scandalosa indifferenza. È Mons. Giovanni Battista Scalabrini che interviene fondando le congregazioni dei missionari e delle suore di san Carlo Borromeo (scalabriniani) che assistono e condividono le vicissitudini degli emigranti. Le sue iniziative a favore di questa umanità dolente (non solo italiani) gli meritano riconoscenza e ammirazione. Sarà proclamato beato da papa Giovanni Paolo II il 9 novembre 1997.

Alla fine della seconda guerra mondiale il Belgio necessitava di mano d’opera, poco qualificata e disposta e scendere in miniera, cosa che gli operai belgi non erano più disposti a fare. Questa domanda venne colmata dagli operai stranieri, soprattutto da italiani nel primo decennio post-bellico. L’Italia è la prima nazione ad inviare i suoi uomini a lavorare in Belgio nell’ambito di accordi bilaterali per lo scambio tra mano d’opera e carbone. Ovvero, lo Stato italiano “vende” i suoi cittadini in cambio di carbone. 

Quando arrivano i primi treni di lavoratori italiani, il clima culturale non è certo buono. Vengono principalmente assimilati al regime fascista, al nemico vinto. D’altro canto, le loro condizioni di vita sono disastrose. Ammucchiati nei vecchi campi di prigionia tedeschi la loro “immagine” non è certo rosea. Una promiscuità indiscutibile e le condizioni igieniche deplorevoli dei ghetti minerari belgi diventano un tema ricorrente di critica xenofoba contro gli italiani. Questi numerosi gruppi maschili, sporchi, rumorosi, e a volte violenti vengono visti come una “minaccia” per l’ordine e la moralità. Nell’immaginario pubblico, l’italiano diventa la figura più negativa della scala sociale di pari passo con quella del “minatore”. Se poi qualcuno si rifiuta di scendere in miniera viene lestamente incarcerato finché non si ravvede e torna nei pozzi. Di rimpatrio, nemmeno a parlarne. E L’Italia che fa? Guarda altrove! 

Oltre cento anni di emigrazione possono essere ora giudicati. Per esempio, se in una casa c’è un rubinetto che perde e dopo due tre anni perde ancora, vuol dire che nessuno ha fatto qualche cosa per ripararlo. Se dopo venti o trent’anni continua a perdere, vuol dire che quell’acqua persa non dava fastidio a nessuno. Anzi, andava bene così. Era più utile che il rubinetto continuasse a perdere. Il rubinetto dell’emigrazione ha continuato a perdere, ininterrottamente, per ben oltre cento lunghissimi anni. Attraverso quel rubinetto sono passati 27 milioni di italiani. Quando finalmente il rubinetto si è fermato non era perché gli uomini erano diventati più saggi. Semplicemente non c’era più acqua. 

Ora quest’acqua è tornata a scorrere: 115.000 giovani (in gran parte laureati) hanno emigrato lo scorso anno, e altrettanti se ne prevedono per il 2019. In compenso arrivano gli stranieri che non trovando un’occupazione debbono essere accuditi. Cosa, questa, impensabile per i nostri emigranti. È il nuovo volto dell’emigrazione. Ora sono gli stranieri che cercano nella penisola un posto di lavoro e un gesto di solidarietà. La presenza degli stranieri sarà, nei prossimi anni, il problema sociale più importante e drammatico dell’Italia. 

Ma gli italiani che consapevolezza di tutto ciò hanno? In un’indagine OCSE, il cui obiettivo era quello di accertare la preparazione degli studenti quindicenni europei, si è voluto testare anche la capacità di apprendimento nella lettura di un testo che, nella media europea, viene indicata in 487 punti. Da questo punto di vista, l’Italia è divisa nettamente in senso latitudinale riscontrando: a Nord l’eccellenza (Nord Est con 501 punti e Nord Ovest con 498, sopra la media europea); al Centro la conferma della media europea con 484; al Sud un deficit con 453 punti, sotto la media europea, e nelle Isole un grave deficit con 439 punti, nettamente sotto la media CE.

In pratica, più basso è il punteggio e maggiore è la difficoltà riscontrata nell’apprensione di quanto si legge. Il Rapporto Ocse-Pisa 2018 rileva che gli studenti italiani sono deboli in lettura e scienze, peggiorati negli ultimi 10 anni. ‘Rimandati’ in lettura e scienze, 1 su 4 non sa la matematica. Sei ragazzi su 10 saltano le lezioni. Cosa ci sia da essere orgogliosi è cosa che sfugge a molti.

Enzo Trentin

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