Grande Guerra e Lampada della Pace a Monte Berico

Vicenza – È stato scritto scritto che a Vicenza, il prossimo 27 ottobre sarà l’evento conclusivo di tutte le celebrazioni per il centenario della Grande Guerra, il più atteso e il più sentito, con l’arrivo solenne della Lampada della Pace alla Basilica di Monte Berico. Sarà una giornata di grande partecipazione, che coinvolgerà tutta la città, la provincia e la regione, alla quale parteciperanno le più alte autorità civili, militari e religiose, assieme ai Sindaci dei Comuni vicentini, ai rappresentanti di molte associazioni militari e non, a studenti e cittadini. Se questo rito servirà a ricordare i 651.000 militari caduti, e le 589.000 vittime civili, per un totale di 1.240.000 morti, su una popolazione complessiva di 35,6 milioni di abitanti, e volutamente non conteggiando qualche milione di militari e civili invalidi di guerra, siamo senz’altro compiaciuti per l’evento.
Se, invece, questa sarà l’ennesima occasione per strombettare l’inno nazionale da parte di sedicenti patrioti che hanno perso la testa per l’alto valore morale della quarta guerra di indipendenza (in un’ottica storiografica che individua in quest’ultima la conclusione del Risorgimento e dell’Unità d’Italia), e con molta probabilità dovremo sciropparci i “trovadori”, ovvero i compositori ed esecutori di cronache, testi poetici e melodie nazionaliste, che trovassero il modo di ammannirci la loro sicumera con la ricorrenza del centenario, allora noi vorremmo ci fosse concesso di rilevare che la storia insegnata a scuola sentenzia che l’esercito italiano, sconfitto a Caporetto, risorse sul Piave e travolse definitivamente il nemico nella battaglia di Vittorio Veneto. Ebbene in quel momento noi, a modo nostro, vorremmo celebrare l’avvenimento con un’altra informazione stralciando alcuni brani dal libro di Bruno Pederoda: «Tra macerie e miserie di una regione sacrificata – Veneto 1916-1924» © Piazza Editore – Silea (TV), dalla stampa e dalla memorialistica dell’epoca.
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Il soldato italiano si sentiva soprattutto solo, emarginato da un Paese che continuava a vivere come se la guerra non ci fosse, trattato altezzosamente dalla maggioranza degli ufficiali, guardato con diffidenza o con ostilità dagli abitanti delle “terre liberate” incapace di capire il perché di una guerra combattuta per conquistare una terra che economicamente ai suoi occhi non valeva niente e i cui toponimi non avevano nulla da spartire con la lingua italiana. Dirgli che stava combattendo per la patria era offenderlo nell’intelligenza o, quanto meno, dare l’impressione di volerlo prendere in giro. A parte il fatto che non gli riusciva comunque di sentirsi in patria oltre l’orizzonte abbracciato dalla cima del suo campanile, il termine “Patria” gli suonava falso, coniato apposta per ingannarlo, sfruttarlo, sacrificarlo. La società italiana si divideva per lui in “rimasti” e “partiti”, i primi impegnati a far soldi a palate e a spassarsela, i secondi divisi a loro volta in “imboscati” e “combattenti”; i primi raccomandati di ferro, i secondi (come lui) soltanto poveri-cristi.
Stando ad un certo modo di ragionare; in Italia la Patria appartiene da sempre ai furbi che ci campano sopra, mentre a servirla, a nutrirla, a renderle l’omaggio dei sacrifici di circostanza o di rigore ci sono soltanto gli indottrinati, la massa dei “sì, sior paron”, che con indosso la divisa militare diventa sbrigativamente massa dei “signorsì”. Non va dimenticato che, se il primo conflitto mondiale fu per tutti gli eserciti in lotta una “sporca guerra”, per il combattente italiano lo fu forse doppiamente, trattandosi – nel caso suo – di una guerra decisa da pochissimi (e per giunta male illuminati), sostenuta sulle piazze da una minoranza sovreccitata e delirante, aborrita dalla quasi totalità della popolazione.
“Una vasta proporzione della popolazione urbana, nelle città industriali del Nord, fu esentata dal servizio militare. Per di più, gli operai addetti all’industria di guerra erano ben pagati, avevano buone case ed erano di solito socialisti, cioè infidi. Così finì che le unità di fanteria attive risultarono composte soprattutto di contadini meridionali. Gli elementi del proletariato urbano che finivano sotto le armi tendevano a farsi destinare alle unità di retrovia dell’artiglieria o del genio, dove, sapendo leggere e scrivere, ed essendo ‘intelligenti’ potevano essere meglio utilizzati.”(1)
“La guerra la fanno i contadini” era diventata voce corrente. In effetti, “circa la metà dell’esercito fu composta da contadini. (…) Su un totale di 5 milioni e 750 mila combattenti complessivamente richiamati durante l’intero conflitto, ben 2 milioni e 600 mila furono per l’appunto contadini. Quasi tutti appartenevano alla fanteria, la più sacrificata di tutte le armi, destinata da sola a subire il 95% delle perdite. Al principio della guerra fu possibile trovare tra i fanti anche degli operai, degli studenti, degli impiegati, ma quasi subito gli uffici, i comandi e le diverse specialità dell’esercito prelevarono dai reggimenti di linea fin l’ultimo specialista, del ferro, dell’ago, della lesina, della calligrafia. (…) La classe più contraria alla guerra offrì alla patria il maggior contributo di sangue”.(2)
Guerra decisa per il solo fatto che la stavano facendo da un pezzo gli altri, e dunque non si poteva rimanere più a lungo alla finestra; decisione cementata dalla persuasione di poter così creare, finalmente, l’amalgama tra gli italiani e dall’opportunità di poter spegnere d’un tratto gli scontri e i disordini sociali che affliggevano il Paese. Era la tesi dei nazionalisti, diventerà la tesi del fascismo. Ma la politica è realtà, non azzarda l’avvenire di una nazione su un sogno, su un desiderio di rinvigorimento.
Non poteva rimanere a lungo senza ripercussione sul morale di un esercito, spinto in continuazione a dissanguarsi, la destituzione (dopo Caporetto) operata da Cadorna di ben “807 ufficiali, tra cui 206 generali e 255 colonnelli”.(3) Non ha soverchia rilevanza il fatto che Cadorna non venne assecondato, in sede di revisione del provvedimento, per un po’ meno della metà dei casi riesaminati. Si sa che i giudizi emessi in appello sono spesso benevoli ed è intuibile il peso esercitato, direttamente o indirettamente, da tutta questa massa di incapaci (tra cui addirittura 24 comandanti di Corpo d’Armata) sui componenti il collegio giudicante. L’impressione di qualcosa di estremamente serio, esistente alle radici di questa allarmante realtà, si scolpiva nella mente dell’umile fantaccino, mandato a morire da gente che dava prova di non conoscere il proprio mestiere.
Gli elementi per una riflessione approfondita sul caso ci sono offerti dal generale Luigi Capello che, essendo stato bacchettato dai membri della commissione, preferisce parlare per interposta persona. “A che cosa si era ridotta, in Italia, la Scuola di Guerra? Gli ufficiali insegnanti erano, per la maggior parte, dei mediocri teorici – senza cultura – pervenuti al sinedrio non per valore intrinseco o per meriti realmente eccezionali, ma per raccomandazioni politiche o personali: gente senza valore, didattici senza talento e senza idee, rimuginatori di lezioni già fatte”.(4)
Che dire, poi, degli alti comandi? “Se in tutte le altre professioni liberali, per un traviamento generale dello spirito italiano, e specialmente per la intima degenerazione della classe borghese, fu una corsa alla carriera, più che una libera ascensione verso le vette del pensiero, e verso le comprensioni della coscienza e dell’umanesimo, anche nell’esercito, per una lunga serie di anni si instaurò fra i buoni ed i valenti, una geldra di carrieristi e di individui senza alcuna capacità e senza fede; aridi, egoisti, incapaci mentalmente, mancipi degli uomini politici, schiene pieghevoli, impiegati e ronds de cuir, per la maggior parte amanti del quieto vivere, piuttosto che delle vicende bellicose. Costoro arrivarono poco alla volta ai più alti gradi: con gli avanzamenti automatici per anzianità o quelli ancor più automatici della cosiddetta scelta a base algebrica o proporzionale e costituirono quella specie di società segreta, per il mutuo impiego, che era stato il Corpo di Stato Maggiore”.
Le conseguenze del ‘modello italico’ nella concezione e nella strutturazione dell’esercito avevano ormai raggiunto un punto di non ritorno quando il Paese entrò in guerra. Paragonando l’esercito nostro a quello germanico, rigorosamente fondato sulla qualità e l’efficienza, c’è chi desolatamente constata che “noi costituiamo ministeri, comandi, ecc. ecc. tutti a gruppi di amici. Sono piccole brigatelle, che vanno d’accordo insieme”.(5) Di conseguenza, “i quadri dell’esercito permanente costituiscono una casta, che, se non ha grandissimi privilegi economici da mantenere, ha quello bastevole di una velata dittatura, fondata sulla debolezza dei Governi; e lo Stato Maggiore è una chiesuola nella casta, che ha pure privilegi economici, di carriera. (…) Tanto la casta che la chiesuola poi sono dotate di un acutissimo spirito di categoria”.(6)
Il soldato giudicato “non abbastanza colto, era però abbastanza intelligente per comprendere che la guerra fra Italia ed Austria non era stata in origine necessaria né fatale, come avevano voluto fargli credere; ed aveva consentito a combatterla solo per innata sommissione, per scettica rassegnazione”.(7) Il presentimento di una realtà diversa da quella sostenuta a gran voce dalla propaganda e dalla stampa era nato osservando il comportamento della popolazione ‘liberata’, di quella del Friuli orientale come di quella slava, tutta gente che nutriva una malcelata antipatia nei confronti dell’occupante italiano. Al momento della ritirata seguita allo sfondamento di Caporetto, i soldati furono “lietissimi di vendicarsi contro la popolazione civile che li aveva ospitati fino ad allora perché in molti paesi essi erano stati fino ad allora considerati come le vacche da mungere”.
Contadini e commercianti, infatti, per rifarsi dei danni arrecati dalla guerra si erano rivalsi sui soldati vendendo loro prodotti a prezzi notevolmente superiori al normale.(8) Un secondo motivo di ripensamento era stato generato dal comportamento dei militari asburgici di lingua madre italiana i quali, con in testa i Dalmati, si battevano contro di loro con particolare accanimento. A rigore, avrebbero dovuto comportarsi come fratelli!
Forse si nasconde una nemesi nei recessi della storia. Terminata la guerra, avanzati i confini fino al Quarnaro, i caduti furono sepolti a decine di migliaia nel cimitero di Redipuglia, località “dal bel nome italiano”. Importava poco se, storicamente, un “re di Puglia” era improponibile, e per giunta a così notevole distanza dal Gargano e dal Tavoliere; nessuno sospettò l’esito di un adattamento linguistico e la necessità di far risalire il toponimo allo sloveno “srédi polje“, che significa “in mezzo alla campagna”!
Molta colpa della spensieratezza a cui si era abbandonato il Paese veniva attribuita ai giornalisti, impegnati a testimoniare che tutto andava meglio e che il soldato italiano aveva il morale alle stelle. “Il soldato aveva finito coll’odiare, al di sopra del nemico, il giornalista bugiardo che vedeva la guerra attraverso le lenti prismatiche di un cannocchiale e la descriveva con parole da festa da ballo. Era entrata nella sua testa la persuasione che i giornalisti fossero al servizio dei Comandi. (…) In nessun Paese, come in Italia, i corrispondenti dei grandi giornali hanno scritto più stupidaggini e mentito più sfacciatamente sulle vere condizioni dello stato d’animo del soldato in guerra”.(9) Ecco, per esempio, cosa scrive Luigi Barzini su “La vittoria” del 30 marzo 1916. Successivamente le chiameranno con un’espressione sprezzante che è anch’essa d’epoca: «barzinate».
«Come si va all’assalto:
Un colonnello degli alpini ha gettato in aria il cappello dalla piuma bianca: Avanti! Alla baionetta! Le truppe salivano l’ultimo gradino con l’impeto di un’onda, urlando di gioia frenetica. Ridevano combattendo ancora, scivolando, cadendo, morendo. Sono i cadaveri rimasti su quella estrema balza che, rovesciatisi con la faccia al cielo, hanno conservato nella fissità della morte un sorriso pallido, come se un sogno di gloria illuminasse il loro sogno senza fine.»
Una condizione interiore che si presentava invece all’insegna “dell’odio, purtroppo, dell’odio che il fante, il pidocchioso, lo strapazzato, il faticante fante ha per tutti. Hanno un bel dire che è l’eroe delle battaglie”.(10) Si odiano, in certi frangenti persino tra di loro, questi emarginati delle trincee, questi dannati della prima linea. L’idea di formare i reparti mescolando soggetti provenienti dalle diverse regioni d’Italia era forse scaturita, all’origine, dall’encomiabile proposito di “fare gli italiani”, costringendoli a conoscersi, ma aveva sortito effetti poco confortanti ancor prima dell’entrata in guerra. “Nelle caserme risorgevano le differenze d’origine, come se si trattasse di razze diverse, e bastava un’abitudine a segnare il limite; poi le differenze di cultura e quelle di famiglia”.(11)
La burocrazia militare, universalmente ottusa, qui attingeva vette vertiginose. “Specchietti, elenchi, circolari, fogli informativi, rapporti, denunce, dimostrazioni prolisse e minuziosamente documentate delle scarpe, delle divise, delle armi rotte, fogli di addebito, consegne di posizione e di materiale, licenze, permessi, promozioni, ricompense, punizioni, prelevamenti e versamenti. (…) Il comando di compagnia era un ufficio di anagrafe e di pubblica sicurezza, il comando di battaglione una specie di sottoprefettura, comandi di reggimento e di brigata erano prefetture e quelli di divisione e di corpo d’armata ministeri”.
In quegli irripetibili momenti farsi eroi o diventare vili era più questione di occasionale trascinamento che scelta meditata e convinta. Spontanea e convinta apparve invece la decisione degli abitanti di Caporetto, sbarazzatisi dei “liberatori”, di sciogliere a festa le campane, rimaste legate per più di due anni. Propiziatorio in questo giorno iniziale dell’offensiva, piuttosto che di esultanza, ci sembra invece di dover giudicare il gesto compiuto dai primi prigionieri italiani che “si affrettarono sulla strada di Tolmino agitando fazzoletti bianchi, al grido di ‘Evviva la Germania”‘.(12)
“Nella campagna i nostri soldati sbandati commettono tutte le specie di violenze”.(13) Dopo le cose, era arrivato il momento delle persone. Non fu la fame a trasformare in briganti e violentatori i soldati italiani allo sbando. Questo. Semmai, sarà vero più avanti, nei giorni ancora da venire. Qui, all’ingresso della pianura friulana, fu solo basso istinto, scatenato da quell’odio contro tutto e contro tutti, che si accaniva ora su una terra sentita come estranea e sulla sua popolazione, così diversa e così spiritualmente lontana.
Sulle nuove strade che si aprono alla salvezza, una volta ancora al di là di un fiume, la baraonda era ricominciata in dimensione ancora maggiore. “A ogni passo, si può dire, si vedevano, seminati nella belletta che il vento rinsecchiva, fucili nuovi o spezzati, a mucchi, buttati nell’acqua delle chiaviche, tascapani penzoloni sulle macchie, elmetti, coperte, teli da tenda sugli argini e sulle sponde. Ogni tanto un camion. una carretta. una trattrice, forni, macchine e veicoli d’ogni sorta, fracassati, ribaltati nei fossi, insieme al carico gli uni, coi cavalli e tutto gli altri. Per le sodaglie e per i prati scolorati, ora da un lato ora dall’altro, centinaia e centinaia di cavalli e di muli morti, alcuni già ridotti a scheletri, altri arrovesciati nel fango degli acquitrini e nel loro sterco, col ventre gonfio che già cominciava a putrire, le zampe sconciamente allargate, la lingua paonazza e tutte le cosce scalcate”.(14)
Sulla capacità effettiva di fermare gli Austro-tedeschi sul segmento Grappa-Piave pochi erano disposti a credere, nessuno a scommettere. “Gli uomini che si ritirano continuano a credere che la guerra si finisca non battendoci. Il soldato non pensa al Piave né al Po, pensa alla pace. Questa è la straziante verità”.(15)
Teniamo presente che il siluramento di Cadorna non aveva apportato nessun miglioramento nei quadri, e che è destituita di ogni fondamento l’affermazione corrente, secondo la quale “il Comando Supremo dell’esercito si mutò in tutto e per tutto, non solo negli uomini ma anche nei metodi, nelle azioni direttive circa il Governo delle truppe e che venne modificato radicalmente quanto venne fatto in precedenza”.
Al di là di un trattamento umanamente più accettabile e di uno spreco di promesse da mantenere in un dopoguerra vittorioso (i cui effetti saranno comunque riscontrabili solo nella primavera a venire), rimane il fatto che “dopo Caporetto, quasi tutti gli stessi uomini dell’ufficio operazioni del Comando Supremo, e che erano stati con Cadorna, ritornarono alla chetichella nei loro uffici e risiedettero nei posti precedentemente occupati”.(16) Anche i peggiori e i pessimi.
Che cosa, allora, promosse un cambiamento così radicale? I cultori delle scorciatoie sono schierati per una improvvisa e travolgente reviviscenza dell’amor patrio, e questa è la spiegazione rimasta anche nei decenni a venire, alimentata dall’inguaribile propensione italica ad adulterare la Storia. Il soldato italiano che si batte fino allo spasimo sulla pedemontana del Grappa provava per la favola della grandezza e della difesa della Patria la stessa avversione di sempre. A crederci – o, piuttosto, a far finta di crederci – ci saranno stati magari, prima del giugno 1918, solo gli ufficiali superiori, quelli che avevano ricevuto l’ordine di pigiare in continuazione su questo tasto stonato e, naturalmente, gli immancabili mestieranti della politica. La presa psicologica di questa azione di sostegno morale risultava fallimentare tanto tra i militari quanto tra i civili, nei confronti dei quali veniva del pari rivolta. Ai primi di dicembre del 1917, in risposta alla sollecitazione prefettizia di tener desto il morale della popolazione rinfocolando lo spirito patriottico, il vescovo di Treviso dice «che fa quanto può, ma soggiunge che predicare al popolo su questa direttiva patriottica allo scopo di far apparire necessaria la guerra, non è possibile, se ne otterrebbe degli effetti disastrosi.» (17)
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Sono cronache di cent’anni fa nelle quali si riscontrano le caratteristiche odierne dell’irriformabile Stato italiano. E poiché ci siamo dilungati, e molto altro c’è ancora da dire, rimandiamo ad un prossimo articolo la citazione di alcune raccapriccianti testimonianze come questa: «Mentre ogni paese si mobilitava per innalzare un monumento ai propri caduti, – degli operai raccoglievano dagli altipiani, dal Carso, le ossa dei Caduti per lo sfruttamento industriale della fabbricazione dei fosfati – » (il Risorgimento, 22-23 febbraio 1922, nr. 4, un Cappellano insieme ai soldati sul Grappa)
La questione fondamentale è che tutti gli Stati sono culti: religioni. E come tutte le religioni, gli Stati hanno sacramenti, inclusi i rituali sacri. L’inno nazionale è uno dei sacri rituali del culto dello Stato. Quelli che sono stati pienamente iniziati e indottrinati in quel culto sono stati programmati per entrare in modalità di attacco quando i membri divergenti del culto (gli eretici) non osservano tali sacramenti, come l’inno nazionale o il pegno di fedeltà al panno del santo palo. Tale pressione tra pari è come le sette mantengano il loro numero. Le votazioni sono un altro di quei riti sacramentali. Come con l’inno nazionale e il giuramento di fedeltà, i veri credenti sono inorriditi quando si sostiene l’astensione dal voto.
La scuola, che è la nostra principale iniziazione al culto dello Stato, indottrina a fondo e universalmente i suoi iniziati nel sacramento del voto. Siamo stati tutti sottoposti al lavaggio del cervello dal momento in cui eravamo bambini piccoli nel santo mito della democrazia che rende l’Italia eccezionale; i patrioti patirono e morirono per l’Italia, per i diritti civili, dalla seconda guerra mondiale alla guerra al terrore dei nostri giorni; e attraverso il voto siamo autorizzati a combattere per ciò che è giusto, per rendere il nostro paese, le nostre stesse vite, migliori.
Al contrario è il sorteggio l’alternativa democratica alle elezioni. Ma ecco l’inghippo. Come tutti i rituali mistici, il rituale del voto si basa sulla superstizione. Come un incantesimo o una danza della pioggia, si basa sulla superstizione che un grande bene può venire da un semplice gesto. Proprio come il ballerino della pioggia pensa di poter evocare la pioggia che salverà i suoi raccolti, l’elettore pensa di poter convocare una riforma che salverà il suo Paese. Invece la democrazia in Italia è una forma di guerra. Ciò che la distingue dalle altre forme di guerra è che si tratta di una guerra civile per il saccheggio legale.
“Saccheggio legale” è un termine coniato da Frédéric Bastiat. Noi possiamo aggiungere anche omicidio legale e rapimento legale. Queste attività, che noi giustamente consideriamo criminali se fatte da chiunque altro, divengono legittime unicamente quando vengono commesse dagli agenti dell’immaginario Dio-Stato. La rapina diventa tassazione, il rapimento diventa incarcerazione, l’omicidio diventa politica estera.
Enzo Trentin
Note:
(1) John Whittam “Storia dell’esercito italiano” pagg. 302-03.
(2) Piero Melograni “Storia politica della Grande Guerra” pagg. 92-93.
(3) Luigi Albertini “Venti anni di vita politica” parte seconda – pag. 160.
(4) Una volta raggiunta l’Unità, grazie alla “conquista regia”, la tradizione militare piemontese era fatalmente destinata al tramonto. Ad imprimere una brusca accelerazione al processo in atto e ad abbozzare la fisionomia del nuovo che veniva avanti, ci pensò Luigi Mezzacapo, fresco ministro della guerra nel Governo Depretis. Tredici generali furono mandati in pensione, compresi Cadorna e Petitti, si dice per raggiunti limiti di età, ma si fece notare che, guarda caso, dieci di essi erano piemontesi”. Ed è fondamentale tener presente che, allora, l’esercito non era ancora inflazionato di generali. Il fratello del ministro della guerra, Carlo, fu fatto comandante di corpo d’armata, il generale Nunziante divenne presidente della commissione per l’esercito di linea, il colonnello Primerano divenne segretario al ministero della guerra. Erano tutti meridionali e furono visti come rappresentanti di una nuova amministrazione borbonica. È vero che Depretis era piemontese, ma il suo Governo si basava sull’appoggio del Mezzogiorno e questa ‘strage di generali’ puzzava di politica, oltre che di regionalismo (John Whittam “Storia dell’esercito italiano” pagg. 172-73).
(5) introduzione al diario di Angelo Gatti: «Partendo da diversa angolatura, Prezzolini arriva a non diverse conclusioni. “Le aspirazioni materiali, la mediocrità delle menti, lo scarso senso del dovere, il nessun rispetto per gli altri e soprattutto per i soldati, il desiderio di avanzamento di certi ufficiali permanenti, l’imprevveggenza del comando supremo, la trascuranza di particolari”, si imponevano all’attenzione più delle qualità, minoritarie, ma per la verità non rare. “La classe dirigente italiana, veduta attraverso gli ufficiali, non era preparata, e non era rispettata. C’era quasi in ogni soldato la diffidenza verso il superiore, atavica esperienza di truffe e di oppressioni. Nei soldati una mancanza assoluta di senso patriottico” (Giuseppe Prezzolini “L’Italiano inutile” pagg. 193-94).
(6) Luigi Albertini “Venti anni di vita politica” parte seconda – pag. 160.
(7) “La riscossa” 10 aprile 1920, n. 10.
(8) Aldo Valori “La guerra Italo-Austriaca” pag .422.
(9) Antonio Pirazzoli “La battaglia di Caporetto” pag. 27.
(10) Angelo Gatti o. c. pag. 52.
(11) Corrado Alvaro “Vent’anni” pag. 21 .
(12) Ciovanni Pieropan “Storia della Grande Guerra” pag. 420.
(13) Angelo Gatti o. c. pag. 299.
(14) Con il termine cosce scalcate si intende significare che nelle cosce di ognuna delle bestie sono state tagliate col coltello e con la baionetta larghe fette di carne, dopo di che le profonde ferite sanguinolenti annerivano e imputridivano al sole”. Ardengo Soffici o. c. pagg. 178-79.
(15) Rino Alessi “Dall’Isonzo al Piave” pag. 154: Annotava sul suo diario, in data 11 novembre, il colonnello Angelo Gatti: “Abbiamo noi dati favorevoli, oggi, per attaccare battaglia? Per quanto riguarda il morale delle truppe, no. Suppergiù esse sono ancora nello stato in cui erano dieci giorni fa, perché non hanno avuto quel tempo di respiro e di ricostituzione, che occorre”.
(16) Luigi Capello o. c. (memoriale del capitano Lorenzoni) pag. 12.
(17) Massimiliano Pavan “Profughi ovunque dai lontani monti” pag. 58: A tal proposito riportiamo un aneddoto. È l’ottobre del 1918, siamo alle ultime battute dell’immane conflitto, il cui esito volge ormai chiaramente a nostro favore. “Un generale era andato a fare una ispezione a Caposile. Trovò una sentinella in un posto avanzato e gli fece alcune domande. – Ti portano il rancio a tempo? – Si, signor generale – Le scarpe sono solide? Hai i piedi asciutti? – – Si, signor generale. – Ti manca nulla? – No, signor generale. – Vedi dunque che sei trattato bene. E hai la soddisfazione di compiere il tuo dovere e di difendere la patria. Sei contento? – Signor generale, non dicete fesserie”. A raccontare e commentare l’episodio è Celso Costantini (“Foglie secche” pag. 296), sacerdote di indubbio attaccamento alla patria (ed alla verità).