Lettere e Opinioni

Dalla Serenissima a oggi. Repubbliche a confronto

Vicenza – Nella scuola pubblica italiana ci sono dei singolari squilibri. Per esempio, molto tempo è dedicato all’approfondimento dell’impero romano che è durato esattamente dal 16 gennaio 27 a.C. anno in cui fu imposto ad Augusto il titolo di Imperator, sino al 476 d.C. Anno il cui Odoacre depose l’ultimo imperatore Romolo Augustolo. Quindi esattamente 503 anni. Della Serenissima Repubblica di Venezia, invece, solo qualche brevissimo accenno, e quasi sempre all’interno dell’analisi delle 4 repubbliche marinare: Venezia, Genova, Pisa e Amalfi.

Eppure la tradizione vuole che il primo Doge, Paulico Anafesto, fosse eletto nel 697 dai Venetici, e Venezia abbia prosperato, e si sia espansa con l’ausilio di ben 120 Dogi (ultimo: Lodovico Manin), per finire la sua storia il 12 maggio 1797, ovvero dopo 1.100 anni, ad opera di Napoleone Bonaparte. La Serenissima, ad un certo punto divenne una repubblica oligarchica, ovvero, aveva un sistema di governo di una minoranza; di un gruppo ristretto di persone che è anche detto Governo di Pochi.

Né più né meno di quanto è oggi la repubblica italiana nata dalla resistenza, dove un manipolo di capi partito esalta ad ogni pié sospinto la “sovranità” del Parlamento controllato da loro stessi, in contraddizione con la Carta costituzionale che al Comma 2 dell’art. 1 sancisce invece: «La sovranità appartiene al popolo…». La Serenissima ha lasciato dietro di sé testimonianze cospicue.

Tra queste ci piace qui ricordare una lastra di marmo inserita nelle mura della Torre Bissara a Vicenza che ci parla – da secoli – del trattamento riservato dalla “dominante” ai suoi pubblici ufficiali che si sono dimostrati infedeli. Siamo esattamente al 3 ottobre 1698 ed un alto funzionario dello Stato (nella repubblica di Venezia diversi magistrati sovrintendenti alle attività economiche portavano il titolo di Camerlenghi de Comùn) è bandito, perché si è impossessato di denari dell’erario, ovvero di tutti, e ciò malgrado appartenga ad una delle famiglie patrizie che da sempre governano la repubblica.

Non ci sono dunque nepotismi o eccezioni che contano. Chi sbaglia paga, ed il Camerlengo Andrea Boldù, ovvero  colui che amministra il tesoro e i beni dello Stato nella città di Vicenza, che da lui retta prende anche il nome di “Camera”, viene espulso. Tuttavia, per capire esattamente cosa ciò significasse, dobbiamo esaminare quanto ci dice Pompeo Molmenti nel suo libro dal titolo: «I Banditi Della Repubblica Veneta» (seconda edizione riveduta e notevolmente aumentata) Firenze R. Bemporad & Figlio, edito nel 1898: 

«Già, fin dal 30 agosto 1531, si avvertiva che essendo i banditi diffidati et fuori della protettione del Principe, anzi del listesso Principe nemici, e da lui chiamati abbominevole et detestanda generatione, non devono esser protetti et ricoverati dai suoi feudatari, e per ciò meritano de’ feudi esser privati, essendo anco per legge feudale deciso che quel Vassallo, che favorisce li nemici del suo Patrono sia del feudo escluso. (…) Ma poiché talvolta avveniva che i banditi bene armati si introducevano nelle case altrui, né si aveva ardìre di scacciarli, così molti decreti ordinavano che li Comuni et università delle ville dovessero far sonar campana martello, et con l’armi seguitarli, prenderli et anco ucciderli promettendo immunità e benefizi. Un decreto del 16 dicembre 1560 permetteva di uccidere l’assassino còlto in fragranti, perseguendolo anche sulle terre non soggette alla Repubblica. 

Per recidere il male, non si avea ripugnanza di ricorrere perfino a mezzi perfidi e tenebrosi. 

Trovo, tra le vecchie carte, una curiosa lettera degli Inquisitori al Capitano di Padova (10 nov. 1662) circa Vessihizione che veniva fatta da dot di privar di vita col veleno quei banditi che stavano ricoverati nella sommità del monte Ricco e che infestavano il territorio di Padova. Se non che la coscienza degli Inquisitori è assalita da scrupoli — tanto varia col mutar dei tempi il significato delle parole — e la lettera continua: “Troviamo anco preparata la materia; ma prima di risolverne la missione, versa il nostro dubbio, se alle stesse persone, che si offeriscono, si possa fidare in mano un’arma così potente e grande da voglierla contro chi ad essi piacesse, e se impiegandola anco fedelmente contro li Banditi medesimi vi sia pericolo, che resti colto qualche innocente, onde per accidente o per disgratia possa sortir effetto diverso dall’intentione. Si compiaccia V.E. riflettere a questi punti, disponere la certezza del buon ordine et avisarci distinlamento dei fondamenti, con quali si pensi dirigere l’impresa, perché levate dai nostri animi queste dubietà, risolveremo con più franchezza quello che conoscessimo conveniente e proprio.” 

I Dieci incaricavano i rappresentanti della repubblica nei paesi stranieri di occuparsi non soltanto di faccende diplomatiche, ma di farsi anche, quando l’opportunità il richiedesse, esecutori della giustizia. Nei Registri dei Dieci trovo, in data 22 febbraio 1576, una lettera al Bailo di Costantinopoli, nella quale si parla di un Marco Boldù, patrizio, bandito dallo Stato per diversi enormi delitti. Se il Boldù fosse capitato a Costantinopoli, il Bailo, secondo le istruzioni, con cauto secreto et sicuro modo doveva farlo levare di vita o per via di veleno come meglio gli fosse sembrato. Occulti espedienti questi, che eccitano nel nostro animo un senso di ribrezzo, ma comuni a tutti i governi e non come taluni vorrebbero, esclusivi della politica veneziana.» 

S’intende che al giorno d’oggi, nella repubblica italiana, nessuno vuole il ricorso a pugnali e veleno per tutti quegli incaricati di pubblico ufficio, politici compresi, che si dimostrano infedeli al mandato ricevuto. Tanto meno è realizzabile la muratura d’una lastra marmorea a segnalare la condanna (che nella realtà spesso manca) dell’infedele. Non basterebbero i muri.  Sic!

Bisognerebbe, dunque, restaurare dei princìpi etici per porre parziale rimedio a un sistema che fa acqua da tutte le parti. Thomas Jefferson in una lettera a William Stevens Smith, datata 13 novembre 1787, scriveva: «Quale paese può conservare le sue libertà se i suoi governanti non sono ammoniti di quando in quando che il loro popolo conserva il suo spirito di resistenza? … I popoli non dovrebbero aver paura dei propri governi, sono i governi che dovrebbero aver paura dei propri popoli.»

Come mai nel corso dei secoli, con tutta la nostra scienza, tali problemi sono rimasti irrisolti? Le loro cause profonde sono note, ma raramente si parla degli ostacoli che ci  impediscono di trovare delle soluzioni adeguate. Le radici che sostengono i vecchi problemi  facendoli  sopravvivere nei secoli sono sempre le stesse e sono solo quattro:

  1. una errata impostazione del problema, dovuta a semplice ignoranza o ad una cattiva tradizione culturale;
  2. una distorta conoscenza del problema dovuta alla disinformazione; 
  3. una incapacità di collaborare a causa della disorganizzazione e frammentazione sociale;
  4. una incapacità di realizzare le soluzioni trovate a causa della mancanza di democrazia.

Enzo Trentin

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