Lettere e Opinioni

Il Veneto ai veneti. Poi, una stagione di riforme

Il Veneto ai veneti. Senz’altro sì, senza spocchia, senza intenti di rivalsa, senza egoismi, ma anche senza esitazioni. E domenica abbiamo una grande occasione per dichiararci veneti, di nascita o di adozione, senza reticenze. Cosa significa essere veneti. Essere noi stessi. Anzitutto per la lingua. Usata da oltre sei milioni di parlanti in Italia (Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia) e in diversi altri paesi: sul litorale e sul Carso (Capo d’Istria, Pirano, Isola), in Croazia, Slovenia, Montenegro, Brasile, Panama, Argentina, Messico, Romania.

Di derivazione latina, ha goduto di ampia diffusione grazie ai commerci della Repubblica Veneta; perciò lingua franca, cioè strumento di comunicazione internazionale fra persone di diverse lingue madri, come avviene oggi con l’inglese, nell’ambito commerciale. Il veneto è tutelato come lingua dalla Regione Veneto e dal Friuli Venezia Giulia, ma non dallo Stato italiano, che non lo classifica neppure tra le minoranze linguistiche.

La lingua veneta, dall’unificazione svilita come un ridicolo dialetto di servette, non ha più avuto alcun riconoscimento, se non di prammatica, neppure nell’ambito regionale. Eppure, a parte il numero e la diversità dei parlanti, sia di lingua materna che internazionali, le opere in veneto più significative sono di autori famosi: il Ruzante (Angelo Beolco) nel sedicesimo secolo, Giacomo Casanova e Carlo Goldoni, nel ‘700, e nel ‘900 i poeti Biagio Marin, di Grado, e Giacomo Noventa e Andrea Zanzotto, trevigiani. E come non ricordare il nostro Luigi Meneghello, con l’immortale “Libera nos a malo”.

La lingua porta con sé una cultura, un modo di pensare e di concepire il mondo: la laboriosità, l’onestà, la creatività, l’attaccamento alle tradizioni e ai luoghi di nascita. Il Veneto, da agricolo (mezzadro), povero e affamato (ricordate le drammatiche emigrazioni tra ‘800 e ‘900), quasi d’incanto diventa la regione più industrializzata d’Europa con un’esportazione superiore a quella della Grecia, e Vicenza diviene la terza città più industrializzata d’Italia. Segno di vitalità e di capacità insospettate, di un popolo orgoglioso delle sue origini, della sua storia e del dovere di onorare le generazioni che lo hanno preceduto.

Certo il voto di domenica non risolverà tutti i problemi, anzi ne aprirà di nuovi. Una critica intanto al quesito, che appunto trattandosi di un voto (fra l’altro piuttosto tardivo, dovendosi tenere almeno una quindicina di anni fa) meramente consultivo, poteva esprimere un qualche cosa di più preciso di quella striminzita, perfino impacciata formula di attribuzione di “ulteriori forme e condizioni di autonomia”. Tanto si segnala, per impegnare la giunta regionale a richiedere precise competenze e a indicare specifiche condizioni di autonomia.

D’altro canto lo Stato non potrà comportarsi come un sovrano che concede, a sua discrezione, quanto gli viene richiesto. La Costituzione impegna, Regione e Stato, a precisi reciproci doveri e dunque il relativo diritto costituzionale non è disponibile. Il problema sarà nel dopo voto. Istituzionalmente si creeranno diversi livelli di Regioni: con le speciali, e le ordinarie, le Regioni autonome e queste differenziate a loro volta a seconda dei gradi o tipi di autonomia.

Per non dire dei nuovi rapporti che questo tipo di regioni istituiranno da un lato con lo Stato centrale e dall’altro con gli enti come Province e Comuni. Maggiore autonomia istituzionale, cui segue necessariamente quella fiscale. Dovranno trovare sistemazione le Province, ancora a metà del guado di una riforma incompiuta, e i Comuni, specie i più piccoli, per i quali occorrerà aprire un’apposita sessione di riforme.

Insomma il voto di domenica non è che un primo passo verso una grande riforma, a Costituzione invariata. Si richiedono politici all’altezza del compito: non quelli all’affannosa ricerca del consenso ma statisti che pensano alle generazioni future.

Giovanni Bertacche  info@bertacche.com

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